Giardino inglese con fontanella d'acqua

Il giardino inglese della città era un punto di riferimento per l'uomo: quando passava da quelle parti e ne avvertiva la presenza realizzava in un senso più intimo dove si trovava. Dal di fuori, dalla via diritta che conduce al porto, appariva come dal nulla una macchia, una zona assurda di alberi altissimi e folti i cui tronchi intersecavano tra loro le direzioni e le cui fronde immense muovevano seguendo i capricci del vento ma quasi sempre lui le spiava flemmatiche nella loro enormità. Di solito si accontentava: pochi secondi di quella vista bastavano a bilanciare il resto del paesaggio urbano fatto di traffico, rumore e gente che va di fretta. Qualche volta però, e quel giorno era una di quelle volte, aveva tempo. Allora amava fermarsi nel suo panificio preferito, comprare qualcosa di gustoso e l'anima sua già godeva all'idea di sé dentro alla macchia. L'acqua di solito non la comprava poiché, di solito, portava sempre con sé una bottiglietta di plastica e poi in caso di bisogno c'era sempre la fontanella d'acqua del giardino da cui attingere.

Quello stesso giorno, nel pomeriggio, avrebbe partecipato al seminario di economia organizzato proprio nella sua città ed era eccitato all'idea di poter presentare davanti ai suoi colleghi, tra cui alcuni stranieri provenienti da varie parti d'Europa, i risultati del proprio lavoro che il suo tutor di dottorato, un professore che aveva contatti con alcune tra le più prestigiose università del mondo e che prestava servizio anche come consulente ministeriale, riteneva "di alto profilo teorico" oltre che dalle "molto promettenti ripercussioni sul piano pratico". C'era però, per lui, qualche punto ancora poco chiaro visto che i complessi calcoli portavano a formule di difficile interpretazione macroeconomica. Erano risultati che parevano suggerire conclusioni anti-intuitive, un po' assurde ad essere sinceri, e in realtà non l'intera sua persona ne era convinta. L'idea perciò di avere a disposizione tutta la mattinata in quel luogo tranquillo con la possibilità di chiarire alcuni degli aspetti più oscuri del suo lavoro lo metteva di buon umore e ne caricava l'anima di buoni propositi.

Prima di mettersi al lavoro andò alla fontanella e si sciacquò la faccia che già aveva sudata nonostante fossero solo le prime ore della mattina. L'acqua fresca portò refrigerio a tutto il suo essere e gli procurò quel piacere che si apprezza in special modo quando si è molto accaldati. Si sentì così pronto. Si sedette nel suo angolo preferito del giardino, quando aveva da studiare, ed estrasse dallo zaino la bozza della tesi di dottorato. Se ne poteva leggere il titolo: "Vantaggi e benefici dello stato a moneta non sovrana" e il sottotitolo recitava: "Sviluppi del secondo ordine della funzione dei giochi discreti di Peterson e Ravituso". Tirò fuori oltre alla tesi alcuni fogli di carta bianca e una penna e velocemente sprofondò nel suo mondo. Compenetratosi nel lavoro intellettuale, si isolava quasi completamente dal mondo fisico circostante, era veramente come essere immersi in un ambiente acquatico in cui i suoni dall'esterno giungono ovattati o, a seconda del grado di concentrazione, non giungono affatto. Di questa specie di mare, di fluido extra-fisico, l'anima dello studioso ne incontrava gli abitanti: alcuni erano simpatici pesciolini dall'espressione buffa ma tutto sommato innocui e facili da trattare. Altri invece erano enormi e incutevano una certa paura, non si sapeva bene da che parte afferrarli e a volte l'anima dello studioso aveva l'impressione di esserne lei in realtà afferrata. Ma il tipo più temibile era costituito da una specie di pesciolino sottile e dal corpo trasparente. Questo pesciolino non possedeva invero nessuna particolare qualità di rilievo, né per forza né per agilità, e molti altri pesci infatti lo catturavano facilmente e se ne nutrivano. Poteva perciò passare inosservato ma era capace, approfittando di un attimo di distrazione, di un movimento specializzato, un guizzo improvviso col quale si infilava nell'ano animico di un essere umano e se questo non faceva nulla per toglierselo poteva stazionare in quel luogo anche per tutta la durata di vita della vittima. Un uomo particolarmente distratto poteva "ospitarne" parecchi senza neanche rendersene conto ma potendosene, nel tempo, osservare gli effetti nel malessere grave della sua anima. Al nostro uomo nessuno aveva mai spiegato i pericoli che si corrono visitando quel mondo e quel poco che aveva imparato lo aveva fatto a proprie spese.

Il luogo del parco da lui preferito non era una panchina ma il muretto che delimitava una scalinata di una decina di larghi gradini che portava da un piano inferiore del giardino ad uno superiore. Sul piano superiore si apriva uno spazio pianeggiante a forma vagamente di anfiteatro e da un lato di questo stava da sola una serra a vetri, vecchia e abbandonata senza più piante all'interno e con qualche vetro rotto ma che assicurava di aver ospitato nel tempo della sua giovinezza la fulgida vitalità di chissà quali e quante piante rare ed esotiche. La scalinata, dicevamo, era divelta, letteralmente spaccata in due lungo tutta la sua lunghezza dalle radici di un possente Ficus Magnolioides che vi si ergeva accanto e che col suo ombrello copriva un cerchio quasi perfetto di sei o sette metri di raggio. Dei due, il muretto della scalinata che sosteneva per le natiche e per i piedi lo studioso era quello dal lato del Ficus.

Di tanto in tanto, come i cetacei, l'uomo doveva riemergere dalle profondità. Per riprendere aria. Era allora che si accorgeva del mondo di volontà nel quale la sua stesa volontà era immersa. Si accorgeva solo allora di qualche coppietta che stava sparsa, a debita distanza ma a portata di vista, o di qualche bambino con la sua mamma che inseguiva un piccione: un mondo fatto di respiri, ansimi, sangue pulsante che se un orecchio attento potesse udirne i battiti ne risulterebbe una specie di sinfonia fatta di ritmi diversi ma armonici. Il cuore dello studioso era una di quelle voci e la lenta linfa fluente del grande Ficus suonava come un basso continuo. Ricaricatosi di forze vitali il nostro eroe si reimmergeva nel mondo delle idee che di tali forze ne è avido divoratore.

Più volte l'anima dello studioso effettuò queste discese e risalite ma per quanto si fosse sforzato non riuscì a chiarire i suoi dubbi. Alla fine spossato si arrese. Pensò al gusto saporito dello sfincione dentro allo zaino e decise che era giunta l'ora del pranzo. Attese qualche minuto, lasciò che l'essere organico del Ficus con la sua ampia fronda lo abbracciasse e lo consolasse e quindi tirò fuori lo sfincione e iniziò a mangiare.

Chi è della città di Palermo sa quanto sia buono lo sfincione, quando è fatto bene, ma sa anche che dopo averlo mangiato si è presi dalla sete e si ha bisogno di bere. L'uomo mise mano alla bottiglietta per soddisfare a questo bisogno ma mentre stava per aprire il tappo, si ricordò di averla riempita diversi giorni prima; sarebbe risultata perciò un po' stantia e pensando alla freschezza dell'acqua corrente della fontanella decise di bere quella. E poi, il breve tragitto per giungere alla fontana non gli dispiaceva farlo, passeggiare lo avrebbe aiutato a scaricare quel po' di scorie che i pensieri portano sempre con sé. Giunse alla fontanella quindi, aprì la bottiglietta d'acqua e ne versò tutto il contenuto in una aiuola. Fino all'ultima goccia lo versò nel terreno e rimase un po' ad osservare la piccola pozzangheretta formatasi, lentamente, lentamente venire assorbita dalla terra. Lo incuriosiva il fenomeno dell'assorbimento. Quando la pozzangheretta scomparve lasciando semplicemente un alone di umidità nel terreno, si diresse alla fontana con la sua bottiglia vuota, pronta a ricevere l'acqua fresca. La mise sotto il rubinetto e premette il pulsante. Il pulsante rimase premuto anche senza applicare forza e questo era strano. Mentre ragionava sul perché di questo evento inconsueto, prima ancora che con la ragione realizzasse la portata dei fatti, il sangue istintivamente gli si congelò nelle vene, la fronte gli si fece gelida, un'onda rapidissima e silenziosa di terrore, ancestrale istinto del sottilissimo filo che separa la vita dalla morte, fece pressione dalla periferia del suo corpo verso l'interno. Prima che la ragione realizzasse, abbiamo detto. La ragione arrivò dopo qualche decimo di secondo e quando arrivò, trovò l'anima presa dall'angoscia sincera della percezione della morte. Allora fece il suo lavoro: tranquillizzò l'anima. Le disse che non si era mica nel deserto, che si era piuttosto nella civiltà, che a meno di cinquanta metri poteva ben vedere il bar con i tavolini e con la gente a consumare e a chiacchierare e a ridere. Il sangue poteva riprendere a scorrere quindi, il panico rientrare; che non c'era nulla da temere.

Il piccolo incidente avrebbe potuto essere archiviato lì e messo da qualche parte in quella specie di sgabuzzino, nel grande dimenticatoio delle nostre paure e dei nostri desideri, dal quale forse gli sarebbe stato concesso di riemergere solo per pochi attimi in un'intera vita. Ma il protagonista di questa storia era un tipo che provava un certo fastidio alla polvere e ne avvertiva la presenza anche quando nascosta sotto il tappeto. Il fastidio lo spingeva in genere a cercare di scoprire dove la polvere stava rintanata e a rimuoverla realmente fino a che non percepisse più il fastidio stesso. Questo fiuto fine per la polvere lo obbligava ad un lavoro continuo e faticoso, a cercare di guardare in faccia le proprie esperienze, anche le più dolorose, a non seppellirne il ricordo, stando però ben attento, e questo lo andava imparando coll'esperienza, a concedere alla propria anima tutto il tempo necessario a trasformarle. Rimase dunque lì, con la bottiglietta vuota in una mano, l'altro braccio penzoloni, a guardare la fontanella. L'insieme si sarebbe detto di un bischero da ritratto ma l'aspetto non ci deve interessare più di tanto. Guardava la fontanella. Non l'aveva mai vista così, non aveva mai notato ad esempio che il suo corpo finiva in cima con una piramide di vago sapore egizio, e non aveva mai notato veramente quei bassorilievi le cui forme adesso gli apparivano strane e un po' inquietanti: si sarebbe detto di serpenti sguscianti tra rami d'edera o chissà che altra diavoleria di pianta. Ebbe vergogna di essere stato così ingenuo: avrebbe potuto verificare, prima di svuotare l'acqua vecchia. Perché non l'aveva fatto? Si era fidato ciecamente della fontana non pensando che la fontana avrà pure avuto un gestore, la mano sconosciuta che senza un nome e senza un volto proprio quel giorno aveva deciso di chiudere il rubinetto.